Nonno Vincenzo faceva quadrare le cose. Quello dedito alle lettere e alla cultura era suo fratello Pietro, che aveva il senso della storia e conservava tutto: libri, documenti, dai manoscritti del ‘500 fino alle bolle di consegna. Quando quella mattina del 3 dicembre del 1935 arrivò la lettera, Nonno Vincenzo guardò direttamente la cifra saltando i “felici di comunicarle…” e tutti i merletti della burocrazia. La cifra era alta, molto alta. Nonno Vincenzo alzò per un attimo entrambe le sopracciglia e distese un pochino le labbra. Non si poteva dire un sorriso perché quelli, i sorrisi, dopo trenta mesi di servizio militare e la grande guerra, ormai li usava poco. Come del resto non si concedeva mai alcuna smanceria, da uomo colto quale era, malgrado sin dai 13 anni avesse dovuto ragionare quasi esclusivamente di terra, raccolto, bestiame e prodotti caseari. Questa volta erano mille e trecento lire, un premio veramente importante da parte delle Cattedre Ambulanti dell’Agricoltura, con le quali il Duce incoraggiava la coltura intensiva e le nuove tecniche di produzione. Si trattava di premi provinciali ma con quella cifra, per quell’anno, Nonno Vincenzo aveva portato l’azienda Battifarano tra le prime d’Italia. Nonno Vincenzo non sarebbe andato oltre la cifra se non avesse notato che quella lettera era leggermente più lunga del solito. Occupava quasi tutto il foglio  e si chiese dove avrebbe scritto gli appunti a margine in lapis per suo fratello. Questa cosa degli appunti a margine era parecchio importante. C’erano quelli per commentare i giornali che in famiglia leggevano tutti, maschi e femmine. Poi c’erano quelli personali, come quello dalla compostezza disperata con cui Nonno Vincenzo aveva lasciato traccia del dolore per la morte della sua terza figlioletta. Gli appunti a margine erano il mezzo con cui i Battifarano si scambiavano opinioni e battute e, quindi, un foglio già scritto fino in fondo era una disdetta.

Che cosa voleva l’Accademia con quelle righe in più? “Molti agricoltori premiati, onde dimostrare la piena adesione allo sforzo mirabile che il Partito sta compiendo per salvaguardare la dignità Nazionale, hanno offerto a favore dell’E.O.A parte della somma ricevuta”. Le labbra di Nonno Vincenzo sorrisero, stavolta non si poteva evitare. Poi, sospirò quasi costernato e scosse leggermente la testa. Il Partito non cambiava mai. Da giovane, educato da preti e religiosi e ispirato dalla tradizione liberale di famiglia, aveva mantenuto una posizione sostanzialmente non belligerante rispetto al Partito. Poi vide la gente morire, ammazzarsi tra concittadini che fino a pochi anni prima, nel bene e nel male, si erano sentiti quasi come una grande famiglia. Morì anche suo cognato che aveva dei figli da crescere. Pensò che gli ideali non valessero degli orfani innocenti e preferì dedicarsi anima e corpo alla terra e ai corredi delle sue sorelle da sposare, iniziando una sua silenziosa resistenza al regime.

Ma all’ennesimo rifiuto di prestare la guardia ai Magazzini Comunali dei Cereali, il Partito gli mandò i mazzieri a rompergli la testa. Qualche anno più tardi, invece, il Partito, dopo averlo nominato amministratore del costituendo Consorzio di Bonifica, lo fece addirittura Podestà perché servivano uomini retti e istruiti e come lui se ne trovavano pochi. Ed eccolo ancora il Partito che, come sempre, con una mano dava grandioso, con l’altra toglieva, non lesinando ricatti ora fisici ora morali. Ormai Nonno Vincenzo non ci si arrabbiava nemmeno più. Voleva lasciare a margine una battuta per suo fratello, ma gli passò la voglia. Scrisse solo che gli avrebbe fatto pervenire i due vaglia e poi se ne andò a raccogliere qualche sporadico baccello dicembrino caduto sul viale d’ingresso alla Masseria, dove i secolari alberi di carrubo, con i loro tronchi nodosi e possenti, in prospettiva, ricordavano (e ricordano tutt’oggi) i colonnati dei templi che gli antichi greci forse avevano costruito per Dioniso proprio in questa zona. Nonno Vincenzo raccolse una decina di baccelli. Se li mise in tasca con l’idea di darli ai cavalli per il giro quotidiano dei campi di pere, il frutto che rendeva di più. I cavalli erano la migliore compagnia di Nonno Vincenzo quando andava per campi. Francesco Paolo, l’unico figlio sopravvissuto dei quattro avuti dall’amata e compianta Rosina, le proprietà voleva più che altro amministrarle e lo avrebbe fatto egregiamente, ma le terre le vedeva da vicino quasi soltanto per le sue amate battute di caccia. Mai le avrebbe ispezionate con passione come invece si preparava a fare il prossimo Don Vincenzo, il suo bambino, che sarebbe arrivato presto ad accompagnare il nonno in lunghi e rumorosi giri di sciaraballo.

Don Vincenzo ripensò alle donne “con la coda” quella mattina infuocata di giugno del 1980, mentre la radio suonava “Non sono una signora” di Loredana Bertè. Con i finestrini completamente aperti, Il professor Vincenzo Battifarano guidava verso la scuola dove era in commissione per gli esami di maturità. Quella cantante era calabrese e, poiché la Calabria era vicinissima, pensò che le parole di quel brano riguardassero un po’ tutte le signore del posto. E sarà che la Bertè era parecchio convincente, ma Don Vincenzo proprio in quel momento decise che con le nuove forbici automatiche per la potatura avrebbe potuto assumere anche le donne per il lavoro nei campi. Le donne, come braccianti, erano più veloci e precise degli uomini e per altro costavano di meno, ma non le ingaggiava nessuno, non stava bene. Don Vincenzo non le aveva mai assunte non tanto per un fatto culturale, quanto perché gli attrezzi agricoli spesso erano davvero troppo pesanti per le mani femminili, finivano per slogarsi o farsi male e questo era inaccettabile. Ma con le nuove forbici il lavoro diventava leggero. La Bertè strillò ancora un ritornello e se solo le canzoni fossero state più importanti nella vita di Don Vincenzo, forse a quel punto avrebbe alzato il volume. Invece si limitò a tamburellare un dito sullo sterzo mentre ripensava con orgoglio alle “alzate di coda” delle donne Battifarano le quali, pur essendo delle vere signore istruite e benestanti, cucendo e ricamando, avevano lavorato e lottato per salvare dal baratro la famiglia.

Tra quelle che gli raccontava Nonno Vincenzo, la storia che da bambino gli piaceva di più era quella della bisnonna Domenica. Suo marito, il farmacista Francesco Battifarano, era anche detto “il duca”, per via delle sua costose passioni per la bella vita e le belle donne. Lei, Domenica, aveva giocato d’astuzia. Lodandolo e compiacendolo, alimentava in lui la certezza di essere un capofamiglia perfetto mentre, in realtà, lo estrometteva pian piano da tutte le faccende economiche trasferite gradualmente al figlio, ovvero Nonno Vincenzo. Astuzia positiva, progettualità, intelligenza, queste erano le doti che al Don Vincenzo bambino sembravano tutto ciò che occorresse nella vita. Per questo, quando a scuola gli propinavano nozioni da imparare a memoria, a lui sembrava di perder tempo e la cosa non gli piaceva affatto. Il problema era che non c’era scampo: non era il piccolo Don Vincenzo ad andare a scuola, ma era la scuola a venire da lui. I Battifarano, da sempre sensibili al tema dell’istruzione, avevano richiesto, a loro spese, la sede dell’unica scuola rurale pluriclasse in zona e non c’era altra via d’uscita. Finite con sofferenza le scuole elementari, fu mandato prima in collegio a Napoli e poi all’Istututo Tecnico Agrario di Cesena dove scoprì la sua passione per la frutticoltura e dove sarebbe rimasto volentieri a vivere. Ma anche il suo era “un volo a planare”, come cantava quella grintosa calabrese. Unico figlio maschio, era destinato a gestire la tenuta. Suo malgrado si riavvicinò a casa, frequentò la Facoltà di Agraria a Bari  e finì anche per diventare lui stesso insegnate di scuola dopo averla tanto odiata. Don Vincenzo sapeva di essere comunque figlio di una sorte inesorabile ma fortunata e quindi si diede un’unica condizione interiore per mediare tra ambizioni e futuro segnato: conservare il diritto di “alzare la coda” per l’azienda, per la famiglia e per sè stesso.

La prima volta fu contro la tirannia della natura: se non si poteva avere frutta al di fuori della sua stagione naturale, allora lui avrebbe allungato la stagione. Don Vincenzo applicò i suoi studi cesenati e, osservando il territorio, piantò diciannove varietà di pesche diverse che assicuravano una produzione continua da maggio a ottobre. Poi comprese anzitempo che i mercati ortofrutticoli sarebbero stati sempre più a favore dei commercianti e non dei produttori: organizzò così una piccola centrale ortofrutticola, snella, efficiente e dotata di moderne celle frigorifere, con la quale poteva servire direttamente i mercati ed i grossisti della zona. E adesso, al ritmo di una canzone pop, era il momento di “alzare la coda” contro i preconcetti e i pregiudizi. Don Vincenzo, ripensando ai cartamodelli delle sue coraggiose prozie, fu tra i primi, nel circondario, ad assumere donne per il lavoro dei campi, donne che in tempi brevi avrebbero raggiunto la parità salariale.  Intanto, quella mattina di giugno, giunto a scuola, rise di gusto quando i colleghi si complimentarono con lui per essere arrivato in macchina e non alla guida del suo camion, come spesso accadeva durante l’anno scolastico, di ritorno dalle nottate ai Mercati Generali di Taranto.

L’ultimo pezzo di questa storia ve lo racconto io in diretta, perché credo che qualcosa di diverso e importante stia accadendo proprio in questo momento. La cosa che mi sembra più strana di tutte è che il nonno non sia seduto a capotavola. Al posto suo c’è una signora ma non è una persona di famiglia perché chiama il nonno “Don Vincenzo”. Oggi è domenica, ne sono sicuro. Nei miei primi 10 mesi di vita ho acquisito poche certezze ma ben salde: a) mamma, papà e nonna Carmelita hanno il dono della lettura del pensiero e sanno da soli quando ho fame, sonno o bisogno di un pannolino pulito; b) lo zio Ciro vuole più bene ai cuginetti inglesi, ma non è vero; c) la domenica si mangia tutti insieme o qui o a casa dei nonni. Quindi oggi è domenica perché ci sono tutti. Ma oggi c’è qualcosa di diverso e io, qualunque cosa accada, mi impegnerò a non piangere perché con i lacrimoni agli occhi non ci vedo e invece devo scoprire cosa succede. La parola che sento più spesso è “vino”, ovvero quella cosa rossa, rosa o gialla che i grandi bevono al posto del latte in alternativa all’acqua. A me piace il latte e, se da grande dovrò smettere di berlo per passare al vino, è meglio fare attenzione perchè l’argomento mi riguardava. Lo zio Ciro dà i numeri: “mila” bottiglie, “mila” euro eccetera; la signora parla una lingua straniera e dice cose come “marketing” “brand” “logo”, non capisco. Il più comprensibile è papà che però oggi parla poco. Finora ha detto solo cose come “uva” “botte” “qualità” “profumo”, tutte cose che capisco. Io lo guardo fisso ma papà oggi è preso a scrutare con attenzione la bottiglia del vino rosso. È la stessa bottiglia di sempre, perché oggi la guarda di più? Ora ha versato il vino nel bicchiere ma non lo beve, continua a guardarlo e sembra molto concentrato. Lo zio Ciro e la signora dicono in continuazione “l’anno prossimo” “nei prossimi 5 anni” e poi numeri “per cento”. Il cento deve essere un numero grandissimo. “Bravo Vincenzino, hai finito tutta la pappa!” dice la nonna. E quando?!  Accidenti, non me ne sono nemmeno accorto. E la frutta? Ah, ecco la buccia della mela grattugiata, quindi l’ho mangiata, benissimo. Ero distratto da papà che sta dicendo una cosa bruttissima: “il futuro dell’azienda è il nostro vino, lo abbiamo sempre prodotto per noi e non ci siamo nemmeno resi conto che ormai è richiesto almeno quanto la frutta. E’ il momento del vino, non della frutta” CHE COSA???!!! No, no e no! Io non sono per niente d’accordo! La frutta è dolce, tranne il limone ma la nonna lo sa, infatti mi fa mordicchiare la pera mentre il limone l’ho assaggiato una volta e non mi è piaciuto. La signora a capotavola dice che ogni generazione di Battifarano ha guidato l’azienda in base al mercato e ha vinto: Nonno Vincenzo con le pere, Don Vincenzo con le pesche e per il futuro di Vincenzino (cioè io) il cuore della produzione potrebbe essere il vino. Senti signora, fatti i fatti tuoi! Prima di tutto a me piace bere il latte e poi no, io voglio la frutta, non il vino!!! Ma qui nessuno mi dà retta, sono tutti contenti e papà parla di una cosa, i solfiti, che pare ne abbiamo pochissimi. Lo zio Ciro ha ricominciato con i numeri, che questa volta sono i soldi spesi per la cantina. Nessuno difende la frutta e io ho una sola possibilità, non ho altra scelta: piangere, piangere fortissimo!  Ecco fatto, ora tutti mi guardano e si agitano. “Noo, amore…cosa c’è?” Attivo contatto telepatico con la mamma, lei intercetta e dice: “Vuoi ancora frutta, amore?” Sì mamma, è esattamente questo il punto, sei bravissima: frutta, non vino. L’unico che non si smuove di un centimetro è il nonno che sembra intento ad armeggiare una cosa molto piccola. Poi chiama la nonna e le dice “tieni, fagli assaggiare questa, vediamo se gli piace”. La nonna protesta un pochino “è troppo piccolo per l’uva”. Ma lui insiste “fagliela solo leccare, è quella nostra”. Allora la nonna mi ha avvicinato alla bocca un chicco d’uva da cui so benissimo che si fa il quel vino che mi vogliono affibbiare. Tutti mi guardano in silenzio. Il profumo sembra buono. Mamma è preoccupata, papà mi guarda come quando mi aspetta con le braccia aperte mentre provo a camminare. Ok, ok ora l’assaggio e la finiamo qui, così lo vedono tutti che non mi pia… aspetta…ma questo è…zucchero? Ne provo ancora un po’ eh, giusto un pochino. La nonna ha capito, sta per dirlo, ecco ora lo dice “Ah birbone, ti piace l’uva eh?” Certo, questa capacità di lettura del pensiero a volte è disarmante.

Nota dell’autrice

Lo stile romanzato e qualche punta di fantasia non aggiungono e non tolgono nulla alla realtà della storia della famiglia Battifarano. Questo racconto è stato composto mettendo insieme i piacevoli racconti di Don Vincenzo con lo studio dei documenti custoditi nell’archivio di famiglia. L’Archivio Battifarano, creato e conservato originariamente dallo zio Pietro, è una preziosa testimonianza sia della storia di famiglia, sia della storia agricola del Metapontino, ed è oggi di facile consultazione grazie al lavoro degli archivisti della Sovrintendenza Archivistica della Basilicata che hanno riordinato e catalogato i documenti nei quali si nascondono altre e ancora più affascinanti storie.

Questo breve racconto simboleggia l’evoluzione imprenditoriale della Masseria Battifarano voluta per primo da Nonno Vincenzo. Una Masseria di proprietà della famiglia già dai primi del ‘500 ma, come la storia dell’agricoltura ci racconta, le Masserie del Sud Italia sono state fino al diciannovesimo secolo dei piccoli universi autarchici, prevalentemente di autosussistenza per i proprietari e per i loro collaboratori.

È stato un immenso piacere,

Mariagrazia Carulli.